Omelie del Vescovo Domenico nella Solennità del Natale del Signore

Le omelie del Vescovo Domenico Pompili nelle Celebrazioni della Solennità del Natale del Signore

Messa Vespertina con la mensa di santa Chiara

(Is 62, 1-5; At 13, 16-17.22-25; Mt 1, 1-25)

“Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo”. Si conclude così la genealogia di Gesù dopo una sequenza impressionante di nomi che descrivono la storia intricata di Israele – fatta anche di sotterfugi, inganni, mediocrità morale – che conduce diritta alla nascita del Salvatore. La Vergine Maria è il terminale di questa lunga marcia di avvicinamento che racchiude in sé il senso dell’attesa e del compimento. Far memoria di Colei che ha generato l’autore della vita significa, in fondo, riscoprire che questo e non altro è il compito di ogni cristiano: nascere all’incontro con Dio attraverso le vicende liete e meno liete. Si tratta per lo più di donne straniere Tamar, Rahab, Rut e Betsabea. Tamar era incestuosa; Rahab una prostituta; Rut una straniera e vedova; Betsabea una adultera. Il fatto che siano donne e straniere dice già qualcosa. Ma quel che colpisce è che proprio queste donne siano necessarie perché veda la luce il Salvatore. Mi soffermo solo su Tamar che si finge prostituta per farsi mettere incinta dal fratello del suo sposo che l’aveva lasciata vedova senza figli. E così ottiene quel che il suocero, contraddicendo la legge del levirato, avrebbe dovuto consentirle. Ha ingannato certo, ma è più giusta del pio ebreo che l’ha violentata nella sua legittima aspettativa.

Le contraddizioni della vita non impediscono di vivere la gioia del Natale. Questa constatazione ci spinge a vivere con atteggiamenti ispirati alla vostra esperienza della Mensa di santa Chiara: l’empatia, la concretezza, la fratellanza.

L’empatia è la capacità di immedesimarsi nel cuore degli altri, anche quando il nostro cuore è affranto e in subbuglio. La vostra disponibilità in tempi di pandemia è stata illuminante al riguardo perché non vi siete fatti isolare dal virus.

La concretezza dice della vostra capacità di risolvere i problemi quotidiani senza lasciarvi immobilizzare dalle avversità, anche quando si tratta della vostra sede, in attesa di quella che verrà ospitata nel Seminario di piazza Oberdan, a lavori di restauro effettuati.

Infine, la fratellanza che si ricava da una presenza come la vostra che innesca sul territorio una serie di collaborazioni che fanno uscire dall’autoreferenzialità. Come scrive papa Francesco: “Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite” (Omnes fratres, 77).

Messa della Notte

(Is 9, 1-6; Tt 2, 11-14; Lc 2, 1-14 )

“Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. Perché – ce lo chiediamo qui a Greccio – san Francesco per rappresentare la nascita di Cristo chiese soltanto un po’ di fieno e un bue e un asino vivi, animali nominati unicamente dai vangeli apocrifi e non dal vangelo di Luca, appena proclamato? Per rispondere bisogna rifarsi al simbolismo dei due simpatici animali che troviamo spiegato in un passo del grande Isaia (1,3): “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Mentre gli esseri umani, insomma non riconoscono Gesù come il Messia, il bue e l’asino riconoscono nel bimbo posto nella greppia il loro Signore. Gregorio di Nissa (394), interpreta così l’immagine del bue e dell’asino: il bue indica la legge ebraica, alla quale egli è legato come al giogo; l’asino è il simbolo dei gentili. Difatti, egli porta il peso dell’idolatria. Tra il bue e l’asino vi è il bimbo divino, che libera sia gli ebrei che i gentili dal loro giogo e dal loro peso. Dunque, il bue e l’asino vanno intesi in modo simbolico. E possiamo rinvenire almeno due significati.

Il primo è che i due animali rappresentano la natura istintiva ed impulsiva dell’essere umano. Chi reprime le proprie pulsioni e i propri istinti, chi vive solo con la testa, perché vuole pilotare e decidere tutto a partire dalle proprie possibilità, rimane straniero a se stesso, in lui non può nascere niente di nuovo. Abbiamo bisogno di far ricorso dal nostro istinto di base: la paura e la fiducia. In questi mesi abbiamo ritrovato questi sapori primitivi della vita che avevamo trasformato nel panico e nel piacere. Di fronte al bambino nella mangiatoia si riscopre la paura del nostro essere fragili e frangibili e la letizia di provare gli affetti e i legami.

L’altro significato è che la natura istintiva e pulsionale non sono solo forze positive, ma ambivalenti. Il bue che procede guardando fisso davanti a sé e l’asino, che crolla sotto il peso che porta, sono comportamenti di vita che tutti conosciamo. Noi spesso percorriamo testardi la nostra strada senza guardare a destra o a sinistra. Ci carichiamo troppo peso addosso perché non abbiamo misura. Dobbiamo imparare il tempo lento, la calma contemplativa, il relax interiore.

Due animali ci suggeriscono la spontaneità dell’amore e la leggerezza dell’essere. Ecco perché san Francesco quella notte a Greccio convocò tutti per ritrovare queste due esperienze che neanche il Covid potrà toglierci, anzi paradossalmente ci sta facendo ritrovare tra paura e gioia, tra spontaneità e leggerezza.

Messa del Giorno

(Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,1-18)

“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Con queste parole del prologo di Giovanni, la chiesa da sempre festeggia il Natale. Quando però san Francesco volle rappresentare la nascita di Cristo chiese soltanto un po’ di fieno e un bue e un asino vivi, animali nominati unicamente dai vangeli apocrifi. Perché? Per rispondere bisogna rifarsi al simbolismo dei due simpatici animali che troviamo spiegato in un passo del grande Isaia (1,3): “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Mentre gli esseri umani, insomma non riconoscono Gesù come il Messia, il bue e l’asino riconoscono nel bimbo posto nella greppia il loro Signore. Gregorio di Nissa (394), interpreta così l’immagine del bue e dell’asino: il bue indica la legge ebraica, alla quale egli è legato come al giogo; l’asino è il simbolo dei pagani. Difatti, egli porta il peso dell’idolatria. Tra il bue e l’asino vi è il bimbo divino, che libera sia gli ebrei che i pagani dal loro giogo e dal loro peso. Anzi, diventa l’occasione per riscoprire la natura umana.

I due animali, infatti, rappresentano la natura istintiva ed impulsiva dell’essere umano. Chi reprime le proprie pulsioni e i propri istinti, chi vive solo con la testa, perché vuole pilotare e decidere tutto a partire dalle proprie possibilità, rimane straniero a se stesso, in lui non può nascere niente di nuovo. Abbiamo bisogno di far ricorso al nostro istinto di base: la paura e l’abbandono. In questi mesi abbiamo ritrovato questi sapori primitivi della vita che avevamo smarrito, sentendoci infrangibili e autosufficienti. E invece abbiamo sperimentato di essere fragili e bisognosi degli altri.

Va detto peraltro che la natura istintiva e pulsionale non è solo forza positiva, ma ambivalente. Il bue che procede guardando fisso davanti a sé e l’asino, che crolla sotto il peso che porta, sono comportamenti di vita che tutti conosciamo. Noi spesso percorriamo testardi la nostra strada senza guardare a destra o a sinistra. Andiamo avanti come automi e come Sisifo ci ritroviamo sempre daccapo. In questi mesi la nostra velocità si è infrante. Abbiamo imparato ad attendere una telefonata, una passeggiata. Adesso facciamo i conti con la perdita di tempo. E soprattutto con l’attesa. Ma questo dimostra che l’uomo è fatto per pregare cioè per attendere.

Questo Natale, dunque, ci farà bene, se vogliamo. Se ci aiuterà a riscoprire la natura dell’uomo: la paura e l’abbandono, ma anche l’attesa e la preghiera. Così ci sarà dato in dono la spontaneità dell’amore e la leggerezza dell’essere, di cui il bambino Gesù è il segno più convincente.

Video dell’omelia della Santa Messa del Giorno

25 Dicembre 2020 Solenne Pontificale presieduta da S.E. Mons. Vescovo Domenico Pompili

Pin It on Pinterest

Condividi

Condividi il contenuto con i tuoi amici